Lodare e predicare la luce non serve a nulla, se non c'è nessuno che possa vederla. Sarebbe invece necessario insegnare all'uomo l'arte di vedere.

Carl Gustav Jung

lunedì 14 dicembre 2009

SCHOOLCOUNSELING " LE CAREZZE A SCUOLA"






Chi comunica , orienta e dirige il proprio sforzo per farsi comprendere, per influenzare, per valutare, per ascoltare ed esprimere: problemi, necessità, interessi, opinioni, ecc.


Tutto ciò ci permette di entrare in relazione di comunicazione con gli altri.


Come esempio di tale atto comunicativo vogliamo presentare come avviene l’investimento di energia che spesso viene richiesto nella relazione tra insegnanti e allievi.


Ciò che il ragazzo comunica all’insegnante è influenzato dalla reciproca percezione.Il processo di percezione è determinato dalla valutazione che si ha della persona con cui si interagisce.


Questa valutazione definisce il processo di attribuzione di intenzioni in funzione dell’azione comunicativa in atto tra gli attori stessi della comunicazione: richiesta di aiuto, valutazione, ordine, sanzione, ecc…


L’allievo, in relazione alla sua attribuzione verso l’insegnante, per comunicare deve investire la sua energia in differenti aspetti, tra cui:


1. Comprendere ciò che l’insegnante vuole;


2. Capire come dovrebbe dire ciò che l’insegnante desidera;


3. Prestare molta attenzione a non dire o esprimere non verbalmente ciò che l’insegnante non vuole sentirsi dire, viceversa fornire la risposta attesa;


4. Far comprendere all’insegnante ciò che egli stesso desidera.




Se ci troviamo in un clima relazionale di tipo giudicante /doveristico o in una situazione in cui non si sono mai elaborate congiuntamente, le reciproche attribuzioni insegnante-allievo, una grande quantità di energia verrà utilizzata dal ragazzo per auto-controllarsi in funzione dei punti 1 e 3 sopraesposti.


E’ chiaro che un processo di questo tipo si sviluppa a danno dell’energia utilizzabile invece in favore di una comunicazione efficace espressa dai punti 1 e 4 in funzione di un miglioramento dell’ apprendimento e di una interazione più soddisfacente per entrambi gli attori.




UNA CHIAVE DI LETTURA RELAZIONALE




Quando due persone si incontrano cercano di stabilire delle relazioni e di comunicare, essenzialmente per ottenere dei segni di riconoscimento che potremmo definire con: stimolo, contatto, carezza, toccare, colpo, far centro, riconoscere l’altro, colpirlo, gratificarlo, attaccarlo,… comunque, dirgli che esiste e che ha importanza, nel bene e nel male. Queste carezze possono infatti essere considerate come delle reali unità di misura delle relazioni umane. Infatti, più la carezza sarà intensa, oppure svalutante, più la relazione sarà considerata come positiva, oppure negativa, dalla persona. Così, secondo l’Analisi Transazionale, l’intensità o la colorazione piacevole o spiacevole delle nostre relazioni umane possono essere caratterizzate e in un certo modo misurate, facendo riferimento al grado di carezza scambiate.All’origine di tutti i nostri rapporti esiste questo bisogno imperioso di carezze. E’ una vecchia storia! Un individuo non può sopravvivere, se non a condizione che gli altri si occupino di lui, pensino a lui, manifestino sentimenti nei suoi riguardi: ciò si traduce in scambi, verbali e non verbali e in contatti psichici : conversazione sorrisi, sguardi significativi, strette di mano, baci o carezze.Ciascuno ha bisogno di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro, di scambiare carezze: “io esisto, tu esisti” (cfr. le esperienze effettuate su neonati che muoiono per carenza di contatti fisici). OKEITA’ Questa sete di carezze è così importante che è stato provato che un individuo preferisce ricevere dagli altri carezze negative, piuttosto che non riceverne.LE CAREZZE A SCUOLAIl condizionamento culturale europeo non favorisce né l’espressione, né l’accettazione delle carezze positive, siano esse condizionali, per cui l’altro è riconosciuto per quello che fa, o incondizionali, per cui l’altro è riconosciuto per quello che è, potendo ciascuna essere positiva o negativa.


E’ un’affermazione che si può già verificare in famiglia: i genitori danno molta più importanza al brutto voto del loro figlio in una materia, che alla sua buona riuscita in un’altra disciplina.


Analogamente può accadere tra i diversi ruoli che interagiscono nella scuola, per cui un incarico affidato in ottica collaborativa e ben svolto è considerato una cosa normale e non sarà sanzionato positivamente, per contro, un insuccesso sarà sottolineato e commentato.


La carezza positiva è invece determinante se si vuole rafforzare l’impegno nel lavoro di una persona.


La stessa cosa è vera anche nel rapporto pedagogico. E’ nota infatti l’importanza d’aumentare l’interesse in colui che impara, per stimolare in lui il desiderio di continuare ad imparare. Ora, per le stesse ragioni di condizionamento culturale l’insegnante spesso è portato a non lasciarsi andare ad “accarezzare positivamente” l’allievo, come, allo stesso modo, quest’ultimo non s’aspetta di ricevere una carezza positiva.


All’opposto, sanzionare negativamente è ammesso, anche se è meno efficace.


Questa negazione di carezze positive si spiega col fatto che l’insegnamento è basato sulla differenza illusoria tra l’insegnante che sa, che ha ragione, che corregge e l’allievo che non sa, che ha torto, che deve essere emendato.


La carezza positiva, in un simile contesto, ha sentore di favoritismo (il beniamino) ed è vissuto dalle due parti come colpevolizzante.


Quando l’insegnante è confermato nel suo valore di pedagogo, vale a dire quando constata che l’allievo lavora bene, la carezza positiva che gli dà è, alla fine, una carezza che dà a se stesso, ma non appena la difficoltà del compito lo rimette di fronte alla sua incapacità di pedagogo, alla sua difficoltà di individuare la spiegazione adeguata alla comprensione dell’allievo, egli toccato nel suo Bambino Adattato che non riesce, provvede subito ad accarezzare negativamente l’allievo e in maniera incondizionata.


Si può dire nello stesso modo, che è a se stesso che indirizza quella carezza negativa?


E’ sempre lui che determina la realtà della situazione, è l’allievo che ne fa le spese. Ed è così che si deteriora il rapporto pedagogico. Imparare ad “accarezzare” positivamente l’altro non è cosa comune.




Tuttavia ciò rafforzerebbe la sua motivazione, gli darebbe fiducia e lo condurrebbe verso la riuscita.


Una pedagogia fondata su carezze positive è molto più efficace di una pedagogia repressiva fondata su transazioni di dipendenza e subalternità (Genitore Critico – Bambino Adattato), e la relazione interpersonale così creata è positiva sia per l’insegnante che per l’allievo.

martedì 24 novembre 2009

L'ARTE DEL COUNSELING



L'arte del counseling di Rollo May, il padre della psicologia esistenzialista americana, è stato per tanti anni l'unico libro dedicato a chi, pur non desiderando diventare psicologo o psicoterapeuta, svolge un lavoro che richiede una certa conoscenza della personalità umana.
Consigliare gli altri, sia nell'ambiente scolastico, religioso, ospedaliero o aziendale, richiede una profonda empatia, la comprensione del carattere e delle tensioni interne della personalità, la capacità di accettare e rispettare gli altri senza falsi moralismi, l'umiltà di non imporre le proprie scelte di vita.
Con la saggezza, la semplicità e il profondo calore umano che lo contraddistinguono, l'autore spiega come il compito del counselor sia quello di favorire lo sviluppo e l'utilizzazione delle potenzialità del cliente, aiutandolo a superare quei problemi di personalità che gli impediscono di esprimersi pienamente e liberamente nel mondo esterno.
Dopo essersi soffermato sulle caratteristiche della personalità sana ed equilibrata - libertà, individualità, integrazione sociale e tensione religiosa -

May descrive gli aspetti fondamentali del processo del counseling distinguendo quattro fasi:

prendere contatto, stabilire il rapporto, confessione del disturbo e interpretazione.
La fase conclusiva del superamento del problema, la vera trasformazione della personalità, spetta solamente al cliente: il counselor può solo guidarlo, con empatia e rispetto, a ritrovare la libertà di essere se stesso.
Rollo May ha iniziato gli studi a Vienna e ha concluso il dottorato in psicologia e l'analisi didattica a New York. Oltre che medico, è analista didatta e supervisore al William Alanson White Institute of Psychiatry, Psychoanalysis and Psychology. Ha insegnato a Princeton e a Harvard. La critica e il pubblico hanno accolto con favore unanime i suoi contributi come studioso e pioniere della psicoterapia.

lunedì 9 novembre 2009

Graffiti: arte o disagio giovanile?


Graffiti: arte o disagio giovanile?


Graffiti e tag: un fenomeno diffusissimo nelle città, a volte considerato arte, altre volte puro vandalismo. Ma quali sono i fenomeni di disagio giovanile che spesso provocano queste forme di espressione?
FONTE redazione GirlPower Silvia Casini -Luigi MASTRONARDI

Graffiti: espressione artistica o atto di vandalismo? Non è così semplice dare una risposta a questa domanda, perché la scelta comporta solo due opzioni troppo ristrette per riuscire a spiegare un fenomeno complesso come quello del writing. Ce ne parla il Dott. Luigi Mastronardi.
Il fenomeno dei graffiti e dei tag Volendo analizzare i retroscena psicologici del fenomeno in crescita dei writers, bisogna fare una precisazione tra graffiti e tag: i primi sono una forma di espressione artistica per mezzo immagini più o meno complesse, mentre le seconde sono segni o firme velocemente eseguiti con un colpo di spray. Ogni ragazza o ragazzo che entra a far parte del popolo dei disegnatori-scrittori assume un nuovo nome proprio e un suo alfabeto che lo distinguono dagli altri.
Omologazione e differenziazione sono processi alla base dell’ inclusione in un gruppo di writers (detto crew): si rinasce con un altro nome, con peculiarità che vengono trasmesse sui muri, metro, treni ecc… La parete diviene lo specchio della propria identità in divenire, del fluire dei propri pensieri, un mezzo che include e racconta. Ma è solo questo? Non sempre chi scrive sui muri è un writers, non tutti ne fanno parte. Far parte di una crew non è così facile e scontato. Bisogna avere delle caratteristiche coerenti con quelle degli altri membri del gruppo; particolarità non solo fisiche, ma anche culturali e sociali.
Chi appone le firme su muri appena dipinti, su negozi o palazzi dà segno di inciviltà e spesso non merita la stima dei veri artisti dell’aerosol, ovvero coloro che disegnano i muri con le bombolette . In tal caso la scritta è espressione di vacuità, di qualcuno che non ha niente di meglio da fare e, se ciò accade ad un giovane, rappresenta un segnale molto triste di un disagio personale che, se si estende, può diventare disagio sociale. Una forma di comunicazione personale che rappresenta un gesto di autoaffermazione e trasgressione nello stesso tempo.
Graffiti e tag Sulla valenza comunicativa dei graffiti, e degli slogan che spesso li accompagnano molti semiotici e studiosi di comunicazione sono d’accordo, ma allora dove si collocano i tag? Lasciare la propria firma è un modo per dire io esisto, sono passato di qui e ho lasciato un segno che mi farà ricordare e riconoscere con la mia nuova identità. Una inequivocabile richiesta d’attenzione in una società troppo affollata e distratta.

A questo fenomeno si aggiungono i “poeti dei muri”, cioè coloro che scrivono frasi d’amore sotto le case delle innamorate o nei luoghi comuni per la loro “banda”. Questo tipo di espressione scaturisce probabilmente da una dirompente voglia di gridare al mondo i propri sentimenti, per scaricare le proprie sensazioni e paure o per vincere la timidezza di dire le stesse cose faccia a faccia. Un’urgenza comunicativa, spesso intima e focalizzata su una sola persona, che non può e non vuole aspettare lettera, telefonata, e-mail, sms, mms, nient’altro. Le "voci" che “gridano” sui muri possono nascere da un'esigenza estetica, oppure dal mero bisogno psicologico di mettersi in mostra, di delimitare il territorio o di far vedere al mondo che "io ci sono e posso". La sostanziale differenza sta nel fine: i “veri “writers non sono teppisti e cercano l’abbellimento estetico di zone degradate, o la comunicazione di messaggi di protesta; i “poeti dei muri” non si curano della bellezza del prodotto, perché, la loro è solo una forma di comunicazione fine a se stessa; l’espressione di un bisogno di lasciare traccia di se. Questo, sottolinea l’aspetto egocentrico dello “scarabocchiare” sui muri.
Si può scrivere sui muri per tanti motivi diversi: per alleviare tensioni, per raccontarsi, per sfidare l’illegalità. Non c’è dubbio che nei tag e nelle scritte sulle pareti ci sia un segnale di disagio e difficoltà nell’espressione attraverso mezzi canonici di comunicazione. Nelle scritte scaturisce la necessità interiore di raccontarsi, di manifestarsi, di esteriorizzare la storia che scorre lungo i fiumi dell’interiorità. Attraverso spray e bombolette si esteriorizzano stati d’animo come la rabbia, la confusione, la trasgressione, ma anche la felicità e l’amore (corrisposto o no). Gli esperti la chiamano comunicazione povera urbana. Povera perché di limitata qualità e contenuti: le frasi perdono il valore di ribellione che potevano avere in tempi di protesta. Non sono più “pasquinate”, né slogan che hanno un significato connotato politicamente e/o socialmente, sono solo sfoghi impulsivi e spesso incomprensibili.
Eppure qualcosa queste scritte ci dicono: ci segnalano la volontà dell’autore di raccontare parte dei propri vissuti, di lasciare che sia una superficie a mostrare i suoi sentimenti. Forse la società è troppo presa dal suo veloce mutare per accorgersi dei singoli e di loro stati d’animo. I ragazzi sentono il bisogno di esprimersi, farsi notare, sfogare le proprie paure e insicurezze. Vogliono poter far parte di una comunità, di un gruppo che li protegge e gli dà la possibilità di sentirsi qualcun altro: un nuovo nome è come una nuova identità. Un’identità più matura, di uomo e non ragazzino. Per di più nasce il bisogno di emulare chi già scrive sui muri per sentirsi più importanti e mostrarsi al mondo diversi: non più bambini.

La transizione dall’adolescenza all’età adulta è lunga e difficile e spesso i ragazzi hanno l’impressione che nessuno li ascolti, e li capisca. Nel periodo dello sviluppo della propria identità si inizia a sentire l’esigenza di riflettere sull’immagine di sé, e a volerla comunicare agli altri. Tanti sono gli ambiti in cui questa maturazione avviene: vi è l’ambito familiare innanzitutto; quello scolastico e del gruppo spontaneo; le strutture per adolescenti e non. Tutte queste occasioni di socializzazione e crescita individuale hanno però un elemento in comune, un elemento fondamentale per lo sviluppo della persona: il gruppo. In questo periodo, le figure genitoriali, e in genere quelle adulte, non bastano più, e si ha bisogno di termini di paragone simili al proprio. Inizia così il desiderio di essere accettati (bisogno di affiliazione) e di conformarsi alla propria comitiva di riferimento (bisogno di appartenenza). E’ proprio durante l’adolescenza che i coetanei diventano il più importante oggetto di confronto sociale e rappresentano un riferimento normativo e comparativo per valutare in modo autonomo, al di fuori del controllo degli adulti, il proprio comportamento e le proprie scelte, quindi costituiscono un supporto sociale per affrontare i problemi connessi alla crescita.
Nel periodo adolescenziale è l’amicizia, e il consenso dei coetanei, ad essere fondamentale; normale è quindi la ricerca da parte dell’adolescente di una crew a cui appartenere e da cui sentirsi protetto e spalleggiato. Il gruppo dei pari è come un “laboratorio di sperimentazione sociale”, è un vero e proprio strumento di sostegno affettivo ed emotivo, che è in grado di incidere nella costruzione della reputazione e visibilità sociale da parte dell’adolescente. E’ tale l’esigenza di una valutazione in positivo, da parte del gruppo di coetanei a cui si vuole appartenere, che spesso la preoccupazione fondamentale da parte dell’adolescente si trasforma, dall’ansia di scoprire chi si è, a quella di scoprire chi si deve essere, per far parte della ristretta cerchia di “eletti” del suddetto gruppo. L’imitazione nasce da questa necessità di essere parte di un nucleo in cui sentirsi a proprio agio: liberi di esprimersi senza essere giudicati.
Il gruppo è un microcosmo dove “fare le prove generali” per sperimentare la propria indipendenza dagli adulti, e capire chi si è. In questo processo gli adulti hanno un ruolo molto delicato: devono riuscire a seguire la crescita dei propri figli rendendosi disponibili al dialogo, alla comunicazione bidirezionale e alla pari. Le scritte sui muri, se non sono concepite come forme artistiche, possono essere espressione di un disagio, un vissuto troppo forte per essere fatto tacere. Sarebbe meglio poterne parlare invece di dover comunicarlo su una parete.